mercoledì 4 febbraio 2009

Don Claudio Paganini: "Appartengo al mondo dei panchinari"

Il calcio, lo sport in generale, è in molti aspetti metafora della vita. Un giocatore deve affrontare una partita nello stesso modo in cui affronta la vita, a testa alta e con lealtà. In questa intervista don Claudio Paganini, consulente ecclesiastico del Centro sportivo italiano, racconta un anno di sport: bilanci e prospettive nuove. La Chiesa offre uno specifico educativo nei vari ambienti di vita e quindi anche nello sport. Da molti anni don Claudio, in passato direttore dell’Ufficio oratori della diocesi, continua a seguire come assistente spirituale il Brescia calcio. Fra i suoi ricordi le lacrime di Emanuele Filippini dopo un gol con dedica allo scomparso Vittorio Mero, i pomeriggi con Mazzone e un patto salvezza fra i giocatori. Dal calcio ha imparato a cercare l’eccellenza. Nella sua vita non è stato uno sportivo in prima linea, anzi si è seduto spesso in panchina perché “in panchina s’impara di più”. Qual è lo stato di salute dello sport al’interno della Chiesa? Qual è il ruolo dello sport in ambito ecclesiale? Si può notare un avvicinamento tra sport e chiesa. E’ lo sport che domanda alla chiesa una presenza di valore nel mondo professionistico. Il mese scorso il dottor Abete ha convocato i vescovi della Cei per chiedere che cosa può mettere in gioco la Chiesa dopo l’omicidio Raciti e l’uccisione del tifoso Sandri. Alla Chiesa si chiede di donare esperienza, consulenza e presenza in questo mondo. Dopo i tentativi fatti di moralizzare lo sport attraverso le regole, la repressione e i controlli esterni rimane la via dell’educazione attraverso il linguaggio sportivo. La Chiesa come competente in campo educativo ha molto da dire e da fare in questo ambiente così grande e fantasioso. Quali peculiarità può mettere in campo il Csi? Il Csi nasce dalla Chiesa quando nel 1906 si definì la presenza dei cattolici nel mondo sportivo. Poi nel 1994 Gedda prese in mano la situazione in grande stile. Il Csi va avanti ancora oggi sui principi iniziali. Cosa può insegnare? Tanto perché è molto capillare e coinvolge le varie espressioni della società dai bambini agli adulti. Rispetto agli altri enti di promozione sportiva, il Csi è specifico per quanto riguarda la parte ragazzi e giovani. Il Csi sconta ancora un po’ di diffidenza da parte del Coni? Nell’ultimo mese il Coni ha fatto una verifica sulla legalità degli enti di promozione sportiva. Il mondo professionistico non fa sconti. Il Csi gode di una grande stima per la sua presenza sempre più radicata sul territorio. Il prossimo anno sono in programma le elezioni per rinnovare tutti i quadri sia a livello locale che nazionale. Ci si aspetta un parziale ringiovanimento. La realtà di Brescia è molto stimata a livello nazionale per la sua consistenza e per i suoi contatti. Il Csi bresciano è molto legato alla chiesa bresciana, lavorando negli oratori a contatto con i ragazzi. Diversamente al sud dove manca un’impiantistica parrocchiale il Csi è costretto a operare nelle strutture private o comunali rendendo l’attività molto più difficile. Cosa ha imparato don Claudio dal calcio? Ho imparato tanto, anzitutto a cercare sempre l’eccellenza, un livello di qualità superiore. Per un credente l’allenamento quotidiano è quello di tendere alla santità, per uno sportivo l’allenamento quotidiano consiste nel curare ogni piccolo muscolo. Dal calcio ho imparato la vita di squadra, molto simile al fare Chiesa. Se si fa spogliatoio si vince, se fai Chiesa vinci il tuo rapporto con la comunità. C’è un parallelo stretto tra le regole nello sport e i dieci comandamenti. Tutto il mondo che ruota attorno al calcio, variopinto e in alcuni tratti particolare, sente l’esigenze di una presenza che può provocare riflessioni e risposte più ampie. Ci sono ricordi particolari che ritornano con una certa costanza? Mi ricordo le lacrime copiose di Emanuele Filippini quando nella partita di Lecce segno il gol del 3 a 1, dedicandolo all’amico scomparso Vittorio Mero. Proprio in quell’anno i giocatori fecero un patto all’interno dello spogliatoio per devolvere il premio salvezza alla famiglia di Mero. Nell’ultima gara decisiva per la salvezza (il 5 maggio 2002, ndr) contro il Bologna, Mazzone durante l’intervallo con il risultato sullo zero a zero disse: “Quei soldi li avete promessi, o vi svegliate e vincete o li tiriamo fuori di tasca nostra”. Il Brescia alla fine vinse tre a zero con le reti di Bachini, Baggio e Toni e si salvò. In questi anni si è creato qualche rapporto particolare con alcuni giocatori? È bello mantenere i contatti. Spesso mi sento con Pirlo e con la famiglia. Con Mazzone ho creato un bel rapporto anche se all’inizio non è stato facile. Il mister amava dire che nello sport chi ha fede ha una marcia in più. La relazione educativa che si crea con i giocatori continua anche nel tempo, questo mi fa capire che la mia presenza discreta deve essere legata alle singole persone. Se poi in seconda battuta quelle singole persone vivono un rapporto di fede intenso e lo testimoniano nei rapporti con la squadra, con i mass media e con i tifosi di rimando riusciamo a comunicare la fede a un mondo lontano. I calciatori sono testimoni privilegiati che, avendo un credito di ascolto, possono comunicare in maniera implicita i valori cristiani. La fotografia di Kakà con la maglietta “Appartengo a Gesù” è una catechesi che può scuotere il mondo intero. Ci sono persone che all’inizio erano diffidenti e poi si sono avvicinate alla sua figura? Uno di questi era Mazzone. In ritiro mi disse: “Don non ti voglio”. Solo l’intervento di Corioni lo convinse ad accettare la mia presenza. Da allora ci fu una bella amicizia dentro e fuori dal campo. Mi ricordo ancora come se fosse oggi che il pomeriggio successivo alla corsa sotto la curva dell’Atalanta ci ritrovammo a chiacchierare in panchina. Mazzone mi raccontava i principi e i valori di uno sportivo e l’importanza di essere testimoni credibili con i ragazzi, la tesi era: “Don, ho fatto tanto per dire ai ragazzi di essere corretti e proprio io ho dato il cattivo esempio: è imperdonabile”. Questo passaggio fondamentale riconosce l’esemplarità come imprescindibile nell’ambiente sportivo. Un sacerdote che si occupa di sport avrà anche delle passioni particolari… Io appartengo al mondo dei panchinari. Sono cresciuti con il Jolly basket di Orzinuovi con soli quattro punti in carriera. Chi sta in panchina nello sport impara molto di più. Prandelli alla Juve ha fatto molta panchina e grazie a quel tempo di attesa e approfondimento ha maturato una forte competenza perché osservando ha imparato, imparando ha comunicato agli altri. Dal basket ho imparato a stare in panchina. Anche Dio con gli uomini sta in panchina, pronto a scendere in campo con noi. Dio aspetta di essere convocato per la gara della vita. Nel tempo libero mi diverto con il footing e quando posso con lo sci, seguo il calcio e guardo tutte le gare nazionali del Csi. Ho scoperto la ginnastica artistica e ritmica: chi la pratica ha un autocontrollo smisurato. Rispetto ai calciatori i ginnasti sono veri atleti con una cultura del corpo e delle regole del corpo.
Articolo pubblicato su "La Voce del Popolo", settimanale diocesano di Brescia

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