mercoledì 4 febbraio 2009

Di Moggi e di altro

Che confusione. Il processo di Roma che ha visto l’assoluzione di quattro imputati e la condanna lieve, rispetto alle richieste, nella sostanza e nella pena dei due Moggi (padre e figlio) ha riaperto le polemiche sugli scudetti tolti alla Juve e consegnati all’Inter. Occorre fare, però, chiarezza. Il processo di Roma non è per nulla collegato alla decisione di assegnare lo scudetto all’Inter, ma per certi versi alimenta il sospetta che nell’ormai famigerata estate di Calciopoli qualcuno abbia un po’ esagerato. Stando al primo grado di giudizio la Gea non è un’associazione a delinquere. Questo è il primo dato di fatto. Per il resto è opportuno aspettare il processo di Napoli che si è aperto il 20 gennaio nel quale i pubblici ministeri hanno chiesto il rinvio a giudizio per 37 imputati, fra questi figurano Luciano Moggi e Antonio Giraudo. Solo allora la Juve potrebbe chiedere, in caso di assoluzione o di ridimensionamento del castello accusatorio, di rivedere le carte. Premesso che molto probabilmente – visti i tempi biblici della giustizia – sarà una questione di anni, la Juve potrebbe teoricamente avanzare la revisione del processo sportivo di fronte alla Corte di giustizia federale. Si tratta di un’eccezione che fa riferimento – come ricordato da Tuttosport – all’articolo 39, comma 2, del Codice di giustizia. Tornando al processo capitolino, bisogna giustamente ammettere che le accuse sono state molto ridimensionate. Ecco perché il popolo bianconero, capitanato da Coboldi Gigli («Se in futuro constateremo che ci saranno altre assoluzioni o sentenze miti, allora dovremo avere la coscienza che gli scudetti della Juve sono 29 e non due di meno»), ha rialzato la testa dalla polvere. Allo stadio domenica campeggiavano due grandi tricolori: il 28 e il 29. Lo stesso Del Piero ha candidamente ammesso che la Juventus gli scudetti li ha vinti sul campo, poco importa se le statistiche non lo ricordano. Del resto anche Ibrahimovic e Cannavaro in tempi non sospetti non hanno avuto dubbi sugli scudetti conquistati a Torino. Il processo di Roma apre, però, un altro fronte quello della “violenza privata”, delle pressioni esercitate sui giocatori (in questo caso Amoruso e Blasi) per accettare determinati trasferimenti. E se è questa la condanna, caro presidente Moratti, non conviene gongolare. La sentenza ha messo in luce, infatti, un comportamento che è diventato ormai costume in tutte le società di calcio. Badate bene, però, che questa non è una difesa dei calciatori, che si sono abituati all’idea di non rispettare i contratti e a tenere sulla corda il club di appartenenza. Il rapporto tra le parti in questione (società e calciatore) è diventato gioco-forza conflittuale. Forse sarebbe necessario riflettere su questo piuttosto che immaginare scenari futuri per il momento irrealizzabili.
Articolo pubblicato su www.ilsussidiario.net

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