venerdì 13 febbraio 2009

Zaccheroni: Inter, fai attenzione al Milan

L’Inter deve stare attenta al Milan: in un’ipotetica volata finale per lo scudetto i rossoneri potrebbero avere la meglio. Gli uomini di Mourinho se non ritrovano il gioco in Europa potrebbero fare fatica. Alberto Zaccheroni traccia per il sussidiario.net un bilancio del campionato, assegna la palma della squadra rivelazione al Genoa e del miglior giovane a Santon. Il gioco dell’Inter non decolla. Cambia qualcosa sul pronostico finale? La favorita rimane l’Inter, anche se non ha ancora ritrovato la continuità di gioco. L’Inter deve stare attenta al Milan, deve fare di tutto per non trovarselo allo sprint finale. Attenzione anche alla Juve che non molla facilmente. In un’altra occasione ci aveva confidato di non essere convinto dall’atteggiamento tattico di Mourinho Mourinho ha cambiato diverse volte il modulo, sul campo manca ancora il riscontro del gioco. Lo stesso Mourinho non è soddisfatto: vuole un gioco più fluido, più continuo. Qual è la squadra più forte? La Juve è la più organizzata sul piano del gioco, ma ha meno qualità. Dal punto di vista della qualità il Milan è superiore a tutti. C’è qualche squadra che per la disposizione in campo l’ha sorpresa in positivo? Mi piace lo spirito e l’atteggiamento di squadra del Genoa. Mi piaceva anche l’Udinese, ma poi non so cosa è successo. Eppure conosce bene l’ambiente di Udine Ho visto la prima sconfitta della serie a Milano con l’Inter. Ha raccolto poco, ma ha sempre offerto una prestazione di un certo livello. Dopo le grandi rimane, insieme al Genoa, la realtà che mi piace di più per mentalità e spirito di gioco. Anche il Cagliari sta facendo un buon campionato Allegri sta facendo quello che ha fatto Ballardini l’anno scorso. Sta facendo un grande campionato e sta andando oltre le previsioni. Il merito è anche dei giocatori: la costante di questi due anni sono loro. Le squadre, vedi Milan, Juve e Cagliari, che hanno avuto il coraggio di tenere gli allenatori durante il periodo di difficoltà si sono riprese. A proposito di allenatori, qualcuno l’aveva avvicinata alla panchina del Torino prima dell’arrivo di Novellino No, assolutamente. Mi ha contattato qualche squadra, ma preferisco non entrare in corsa. Fra i giocatori possiamo fare qualche nome che si è distinto in modo particolare? Fra i giovani mi ha sorpreso per fisicità e personalità Santon. Conoscevo ma non così bene Milito. Potrei aggiungere anche Pato, ma già all’esordio aveva dimostrato di possedere grandi numeri. D’Agostino sta facendo un ottimo campionato, sarebbe il giocatore ideale nel suo 4-3-3 Sì, D’Agostino è importante. Ci sono squadre, come il Torino, nelle quali i giocatori danno meno di quello che possono dare; altre, vedi l’Udinese, dove i giocatori riescono a fornire il loro contributo o anche a fare qualcosa in più. Il rendimento di un giocatore dipende molto dall’ambiente che si riesce a creare. Lo stesso Stankovic ad inizio stagione era sul piede di partenza, mentre oggi è indispensabile. Ci sono giocatori bravi che faticano a trovare spazio. Tipo? Almiron, ad esempio, è molto forte, ma fino ad oggi non ha incontrato situazioni favorevoli. La Fiorentina non riesce ancora a fare il salto di qualità Firenze è una piazza che toglie molte energie e che mette molta pressione. Ci vuole una certa maturità. I campioni si distinguono dai buoni giocatori per la personalità: il campione ha sempre una grande personalità, quella che gli permette di reggere le situazioni più difficili. Per quanto riguarda la Champions, come vede le italiane? Sarà importante arrivarci con le gambe buone. La Juve fa un po’ più fatica: il gruppo sta tirando la carretta da molto e, di conseguenza, alcuni giocatori sono stanchi. Sulla carta vedrei meglio l’Inter, ma al momento non ha trovato la fluidità nel gioco, una componente importante per fare strada in Europa. Articolo pubblicato su www.ilsussidiario.net

mercoledì 11 febbraio 2009

Luciano Moggi: Vince sempre il migliore

In questa intervista l’ex re del mercato rilegge il campionato, applaude il Milan per la scelta di Beckam, si complimenta per la gestione di Balotelli, promuove l’Inter di Mancini rispetto a quella impacciata di Mourinho, assolve Ranieri dalle critiche, ma vede in Antonio Conte un futuro da predestinato sulla panchina bianconera. E per la Champions? Le italiane passano il turno. Inevitabile anche una riflessione sul sistema arbitrale con i direttori gara che sono portati ad avere una maggiore attenzione nei confronti delle grandi. «I campionati li determinano la forza delle squadre». E’ storia di ieri, è storia di oggi. Come dargli torto? La Juve sta accusando una flessione in un campionato nel quale l’Inter non si sta esprimendo al massimo. Può essere il Milan il vero favorito per la vittoria finale? Ad inizio campionato avevo detto che l’Inter era la favorita e il Milan sarebbe stato il suo principale antagonista. Adesso si sta prospettando questo scenario. L’arrivo di Beckham ha dato un impulso alla squadra, ha fatto acquisire una maggiore autostima. Beckham a gennaio come Davids alla sua Juve Sono due giocatori diversi. Davids completava un modello atletico, Beckham dà i tempi alla squadra. Entrambi forniscono un valore aggiunto e giustificano l’investimento economico. La Roma parte avvantaggiata nella rincorsa al quarto posto? La Roma si gioca il quarto posto con la Fiorentina. Sempre ad inizio campionato si diceva che le posizioni di vertice sarebbero state occupate nell’ordine da Inter, Milan, Juve, Roma e Fiorentina. Ecco perché mi viene da sorridere quando penso che è cambiato il vento. I campionati li determinano la forza delle squadre, la loro qualità e la fortuna (penso agli episodi favorevoli che si possono creare). Alla fine prevalgono sempre i più forti. Si avvicina la Champions. Un pronostico La Roma ha delle opportunità notevoli: l’Arsenal è sì una buona squadra, ma è composta da giovani. La Juve farà più fatica, ma penso che alla fine supererà il Chelsea. L’Inter è attesa dal compito più difficile, ma può passare il turno. Quanto può incidere la Champions sul campionato? L’Inter può superare l’handicap Champions perché ha una pletora di giocatori. La Juve e la Roma potrebbero essere più in difficoltà, perché alcuni di quelli che scendono in campo al mercoledì difficilmente possono essere impiegati alla domenica. Un suo allievo come Antonio Conte sta facendo bene a Bari, così come Gasperini al Genoa. Possono essere loro i prossimi allenatori della Juve? Sono allenatori giovani che si stanno mettendo in evidenza. Conte lo conosco bene: era già un allenatore in campo da giocatore. Ha personalità, ha tutti gli ingredienti per arrivare in una grande squadra. Per quanto riguarda la prospettiva futura sarebbe piacevole avere un allenatore nato in casa. Comunque trovo ingiustificate le critiche a Ranieri. L’ambiente bianconero non l’ha mai amato fino in fondo Ranieri La Juve è terza in campionato, ha superato il turno in Champions ed è in semifinale in Coppa Italia. Era difficile fare meglio di così. Sta facendo il massimo, ha spremuto i giocatori. La squadra oggi è un po’ seduta, ma rientra nella normalità accusare un momento di crisi. Da ex direttore generale come rilegge i molteplici infortuni occorsi alle squadre di vertice? Sono cose che capitano. Certo l’Inter, la Juve e la Roma hanno avuto un sacco di infortuni. Tutti mettono in crisi i medici, ma a questi livelli non ci sono medici poco bravi. Prendiamo il caso della Juve. Per fare i preliminari di Coppa ha anticipato la preparazione e questo significa avere la squadra in una posizione ottimale in un dato momento della stagione. Gli infortuni dipendono sempre da un mix di cause. Tralasciando i traumi, quelli muscolari dipendono da una rosa ristretta che costringe i giocatori a scendere in campo in continuazione: molti non sono in grado di giocare in una squadra di alto livello e altri sono infortunati. Anche l’Inter ha sofferto gli infortuni Sì, forse l’Inter ha sofferto di più gli infortunati. Sta esprimendo un gioco precario, si è visto con il Torino ma anche in altre circostanze non è stata all’altezza della sua rosa .Mi sembra, con tutto il rispetto di Mourinho, una squadra molto lontana da quella vista all’opera con Mancini. Alla fine vincerà il campionato perché ha qualcosa in più, questo non toglie però che con Mancini aveva più punti. E, partendo dalla sua esperienza, come si gestiscono giocatori come Balotelli? Balotelli è un ragazzino, non posso dire nulla perché non lo conosco. Il giocatore voleva andare via, ma l’Inter secondo me ha fatto una cosa buona; si è comportata come un padre, che a volte deve dare qualche sculacciata. Credo che questo comportamento faccia bene anche al giocatore. Se poi Balotelli fa ancora il guascone, allora l’Inter prenderà provvedimenti. Il futuro dirà chi ha avuto ragione. Balotelli sarà molto utile nelle partite di campionato. Da uomo mercato, c’è qualche giocatore sorpresa o che è migliorato a tal punto da consigliarne l’acquisto alle grandi compagini, magari alla Juve? Intanto la Juve e le altre squadre non hanno bisogno dei miei consigli. Probabilmente qualcuno ha peggiorato le sue prestazioni. Rosina, ad esempio, è considerato una stella, ma ha avuto qualche problema. Resta comunque un buon giocatore. I migliori restano sempre gli stessi: Del Piero, Totti nonostante gli infortuni e Maldini che anche a 40 anni dimostra tutto il suo valore. Dopo il processo di Roma che ha ridimensionato l’impianto accusatorio nei suoi confronti, molti di quelli che avevano preso le distanze sono saliti sul cosiddetto carro dei vincitori. Cosa ha pensato in quei frangenti? Niente, si fatica a pensare. Si va avanti per la strada giusta. C’è un vecchio proverbio che dice “non tener conto di nulla, guarda e passa”. Questo è stato ed è il mio atteggiamento. Il tabù arbitri non è, però, ancora superato. Della Valle, ad esempio, parla di un sistema che vuole danneggiare la Fiorentina Tutti hanno avuto l’ordine di dire che gli arbitri sono in buona fede. Io sono il primo a sostenerlo, ma lo sostenevo anche ai tempi della Juve. Il fatto stesso, però, che si ostinino a ripeterlo mi fa pensare che non ci credano del tutto, altrimenti perché dovrebbero mettere continuamente in evidenza la parola buona fede. E’ sbagliato pensare che un arbitro possa aiutare deliberatamente una squadra piuttosto che un’altra, ma è indubbio che sia portato a favorire la squadra più forte o meglio ad avere un’attenzione in più per i potenti: questo non significa che le squadre più forti cerchino i favori. Oggi come ieri. Alla Juve non si cercavano i favori. Gli episodi succedono in questo campionato, ma sono successi anche in quello scorso: non penso, infatti, che avesse torto la vedova Sensi quando ricordava i favori capitati all’Inter. Questo non toglie, però, nulla al fatto che l’Inter fosse la più forte. L'intervista è stata pubblicata su www.ilsussidiario.net

mercoledì 4 febbraio 2009

Calcio: il modello di scouting del Brescia

Sono molti i giocatori che, passando da Brescia, si sono guadagnati il palcoscenico degno dei migliori campioni. Il merito è senza dubbio di un progetto molto ambizioso che, nonostante le non illimitate risorse finanziarie del club lombardo, riesce a contagiare i giovani giocatori che si affacciano al grande calcio. Il Brescia non ha un palmarès che può competere con altre realtà, ma – come spesso accade – la differenza la fanno i rapporti umani. A Brescia possono trovare qualcuno che li incontra prima come persone, li fa crescere come uomini e poi li fa debuttare. Parte attiva di un modello all’avanguardia e studiato da altre squadre è Leonardo Mantovani, un avvocato romano, da otto anni dirigente del Brescia Calcio. Mantovani è arrivato a Brescia nell’anno in cui la Leonessa d’Italia accolse fra i suoi beniamini Roberto Baggio. Mantovani e Maurizio Micheli (ha scovato Hamsik, oggi è direttore sportivo del Brescia) lavoravano all’Udinese (in questo modo si spiega anche l’asse con Napoli e con Marino, al tempo ds dei friulani) prima di approdare alla corte del presidente Gino Corioni. All’Udinese hanno messo a frutto gli insegnamenti carpiti negli anni Novanta dagli olandesi, dagli inglesi e dai tedeschi, che già da tempo si muovevano sul mercato africano. Non c’erano i voli low cost, ma per risparmiare si utilizzava il Sunday rule e si cercava di vedere più partite possibili in una settimana. «Queste esperienze – sottolinea l’avvocato Mantovani – ci hanno permesso di costruire un nostro modus operandi. Abbiamo incontrato, quando ancora internet era lontano, club come il Manchester, l’Arsenal e l’Ajax che erano già attivi sul fronte africano». Un modus operandi che in Italia ha fatto e continua fare scuola. Paolo Piani, direttore responsabile del Centro studi di Coverciano, può confermare che la tesi di Mantovani, fra quelle per diventare direttore sportivo, è la più richiesta. Non sono semplici osservatori che visionano una gara e poi vanno a riferire le impressioni in società, sono dei dirigenti con capacità di spesa che dopo un accurato studio vanno in loco, osservano il giocatore, parlano con il club e soprattutto con la famiglia, avviano le procedure burocratiche e tornano con un contratto firmato. A Brescia Mantovani, Micheli e Marcello Marini hanno sviluppato, in totale collaborazione con il ds Gianluca Nani (oggi al West Ham) il progetto di scouting che in questi anni ha permesso alle rondinelle di lanciare molti campioni: Martinez, Hamsik, Caracciolo (pescato dalla serie C italiana), Zambrella, Santacroce e Mannini, solo per citarne alcuni. La lista (davvero lunga) si potrebbe allungare con altri giocatori pronti a fare il salto di qualità, fra questi spicca il nome del tedesco, di origini ugandesi, Savio. Alla base c’è una ricerca delle partite che possono interessare: i tre dirigenti fanno una sorta di calendario e muniti di ben cinque antenne paraboliche sono in grado di coprire ogni evento sportivo sul globo. «Il nostro compito è quello di anticipare i tempi rispetto ad altre squadre, soprattutto europee. Abbiamo un solo elemento per competere con gli altri club: i rapporti personali con i genitori e il giocatore. Savio, ad esempio, quando è arrivato qui da noi poteva benissimo finire anche al Chelsea e al Manchester, pensa che gli abbiamo cambiato due volte il telefono perché lo tartassavano». Avranno proposto anche ben altre cifre, ma… «Gli abbiamo fornito un contratto da professionista, ma soprattutto quando ho parlato con la madre (il padre è morto, ndr) nella sua casa di Monaco le ho garantito che se il figlio avesse dimostrato il suo valore, gli avremmo dato la possibilità di bruciare le tappe». Questo è quello che voleva, questo è quello che è successo. «La madre ci ha chiesto di stare vicino al ragazzo e di crescerlo come uomo». Contano molto i rapporti che si creano. «Al di là del ruolo che non ammette intermediari, la nostra forza è data dal carattere, dalle capacità dei singoli: siamo tre persone che collaborano appoggiandosi a un progetto». Dvd su dvd. L’ufficio di Mantovani è pieno di registrazioni catalogate per partita o per giocatore. Grazie a una collaborazione con la Digital Soccer vengono realizzati dei filmati ad hoc sui singoli giocatori. Certo molti club lo fanno già per analizzare di volta in volta la compagine avversaria, ma pochi lo fanno per scovare talenti. A Brescia ci riescono bene e lo dimostrano tutti gli affari messi a segno. «Oggi tutti i club avrebbero bisogno di un gruppo come il nostro». A Brescia c’è anche la giusta tranquillità per poter far emergere i giovani. In Italia i grandi club, come testimoniano le scelte di mercato, puntano quasi sempre sui giocatori affermati, in Europa ci sono società più lungimiranti. «Il sogno è quello far diventare il Brescia un piccolo Arsenal». I ragazzi vengono sistemati con un contratto professionistico in un agriturismo a conduzione famigliare a Montirone (una località alle porte della città). Attualmente sono in venti (di cui 12 stranieri): sono seguiti e sono accompagnati a scuola e al campo di allenamento. Pantaleo Corvino dice che gli bastano 15’ per valutare un giocatore, ma con il calcio odierno con più partite in una settimana il rendimento può risentirne e allora è meglio saper valutare tutte le condizioni in gioco. C’è in buona sostanza uno studio a monte, una capacità di intuizione. Poi in alcuni casi si devono registrare anche delle coincidenze, come quella volta con Mareco. «Mareco è qui da noi perché Maurizio (Micheli, ndr) andò a vederlo in Sudamerica. Era l’11 settembre del 2001: riuscì a prendere il volo prima del blocco delle rotte internazionali per la tragedia delle Torri Gemelle. Così l’evento infausto fece in modo che a vedere il difensore c’erano forse tre osservatori». In questo caso l’affare si concluse subito, in altri fu determinante la questione economica. «Selezioniamo Kakà, facciamo vedere le cassette anche a un entusiasta Mazzone e partiamo per San Paolo. Lì intavoliamo la trattativa con il padre-procuratore e tutto sembra andare per il verso giusto». Poi? «Si devono rinnovavano le cariche societarie e il presidente del San Paolo ci dice che avendo già venduto l’attaccante Franca al Bayer Leverkusen non può vendere anche un giovane emergente come Kakà. Avrebbe potuto giustificare la cessione solo con una cifra importante, ma a quel punto l’investimento era fuori dalla portata del Brescia». E così ad accordi praticamente fatti il giovane brasiliano finì al Milan. Il primo giocatore ad essere selezionato in Italia da Mantovani fu Appiah (in questi giorni in prova al Tottenham), che approdò all’Udinese. Il forte centrale ghanese, scartato dal Galatasaray, arrivò a diciassette anni in Italia e dimostrò il suo valore. Il rapporto creatosi con Mantovani lo portò anche a Brescia, dopo che l’epatite aveva rischiato di compromettergli la carriera. Lo stesso Mantovani lo seguì a Chicago per le cure del caso. L’attività dell’avvocato romano inizia presto su è giù per l’Africa (suo l’apporto decisivo nella firma di Dossena con il Ghana). In precedenza ha avuto il merito di portare – come primo grande colpo – Mahamadou Diarra (oggi centrale del Real Madrid) all’Ofi Creta, allora allenata dall’olandese Gerard. «Avevamo acquistato il fratello che ci disse “guardate che mio fratello è più forte”. Prendemmo così anche il fratello, che l’anno successivo si conquistò le attenzioni del Milan. Il tecnico olandese favorì, però, il Vitesse come destinazione del centrocampista del Mali». Il progetto Brescia guarda già avanti, pronto a fare un ulteriore salto di qualità, «anche perché molte squadre incominciano a imitarci». Per il momento altri si affacciano sul palcoscenico. Il prossimo nome da annotare sul taccuino è il polacco Salomon, centrocampista centrale (classe 1991, 1,90 di altezza), «un giocatore molto intelligente e dalla spiccata personalità. Dotato tecnicamente, molto bravo nel ragionare e nelle geometrie». Attenzione anche al laterale svizzero Berardi, che da attaccante si è trasformato in difensore fluidificante, guadagnandosi la fiducia di mister Sonetti. Il pubblico è pronto ad applaudirli.
Articolo pubblicato su www.ilsussidiario.net

Una pizza senza confini

La mancanza del lavoro spinge ogni giorno centinaia di persone ad affacciarsi sulle coste del mediterraneo e ad affrontare il viaggio della speranza verso l’Italia. Dieci anni fa Ataalla Nasr Hamed Haly ha preso i suoi pochi bagagli ed è partito da El Muonfia alla volta di Brescia per cercare lavoro, per cercare l’Eldorado: il suo Paese natale l’Egitto, infatti, non offriva garanzie a un neo geometra. Un lembo di terra carico di storia che non sa offrire opportunità. Da El Muonfia, una cittadina a 80 km dal Cairo, a Brescia grazie all’interessamento di alcuni amici. La sua destinazione gli permette lentamente di imparare l’italiano e di avere il necessario per vivere con lavori saltuari. Per cinque mesi si ritrova a fare il lavapiatti per tre ore al giorno. Da lavapiatti viene promosso, per la sua capacità di apprendere, aiuto cuoco al ristorante “La Torre”. Dinamico e volenteroso Ataalla Nasr Hamed Haly, in arte “Mimmo” apprende tutti i trucchi del mestiere perché, come ama dire, “quando si vede una scala bisogna salire e fare un gradino alla volta”. Fin qui la storia potrebbe essere comune a quella di molti altri extracomunitari arrivati in Italia. Nel 2001 il giovane egiziano (classe 1973) incontra sulla strada un bresciano (Piero Valzelli) che segnerà il suo futuro. Piero, nato a Prevalle nel 1937, è un borgosatollese d’adozione se non altro perché dal 1969 vive e lavora come ristoratore nel paese in continua espansione alla periferia di Brescia. Chi lo conosce bene sa che sul lavoro non è uno che si accontenta facilmente, è il classico personaggio che “ha vista” come si definirebbe in gergo bresciano. Nel 2001 Mimmo diventa, dopo aver letto un annuncio sul nostro giornale, il pizzaiolo di Piero. Fra i due si instaura un rapporto di amicizia che porta l’allievo a carpire i segreti del maestro, fidandosi dei suoi dettami come quella volta che, su suggerimento di Piero, Mimmo (di religione musulmana) prese il latte con la grappa per abbassare la febbre. Bastano pochi mesi per convincere Piero che il giovane egiziano ha la stoffa giusta per aiutarlo nella conduzione dell’impresa. Il giovane e l’anziano divisi dall’età anagrafica, dalla cultura, dalla religione e dalle tradizioni, trovano un terreno comune: il lavoro. Subentra anche una malattia che costringe Valzelli a fare la dialisi tre volte alla settimana e soprattutto lo mette nelle condizioni di cercare una spalla su cui appoggiarsi. Nel 2002 Piero e Mimmo costituiscono la Pizzeria-Ristorante “Da Piero e Mimmo”, una Snc. Mimmo, curando personalmente il restyling, ha apportato un’impronta giovanile al locale che ha una capienza di 120 posti grazie anche alla veranda esterna utilizzabile sia d’estate che d’inverno. Nel 2007, dopo l’inevitabile lungo iter burocratico, ha fatto il ricongiungimento con la moglie. Tre mesi fa è nato “Ahmed”, il primo erede, per tutti “Paolo” che si addormenta sulle ginocchia del “nonno” Piero. Il buon andamento dell’attività della pizzeria (400 pizze solo nel fine settimana) ha permesso a Mimmo di inserire nell’organico con un contratto regolare il fratello, il nipote e il cognato. Alla base di tutto la riconoscenza, forse per mettere in pratica quello che altri in precedenza hanno fatto per lui. Anche il Ristorante-Pizzeria “Da Piero e Mimmo” non si discosta, quindi, dal tessuto bresciano caratterizzato da imprese di tipo famigliare.
Articolo pubblicato su "La Voce del Popolo", settimanale diocesano di Brescia

Don Claudio Paganini: "Appartengo al mondo dei panchinari"

Il calcio, lo sport in generale, è in molti aspetti metafora della vita. Un giocatore deve affrontare una partita nello stesso modo in cui affronta la vita, a testa alta e con lealtà. In questa intervista don Claudio Paganini, consulente ecclesiastico del Centro sportivo italiano, racconta un anno di sport: bilanci e prospettive nuove. La Chiesa offre uno specifico educativo nei vari ambienti di vita e quindi anche nello sport. Da molti anni don Claudio, in passato direttore dell’Ufficio oratori della diocesi, continua a seguire come assistente spirituale il Brescia calcio. Fra i suoi ricordi le lacrime di Emanuele Filippini dopo un gol con dedica allo scomparso Vittorio Mero, i pomeriggi con Mazzone e un patto salvezza fra i giocatori. Dal calcio ha imparato a cercare l’eccellenza. Nella sua vita non è stato uno sportivo in prima linea, anzi si è seduto spesso in panchina perché “in panchina s’impara di più”. Qual è lo stato di salute dello sport al’interno della Chiesa? Qual è il ruolo dello sport in ambito ecclesiale? Si può notare un avvicinamento tra sport e chiesa. E’ lo sport che domanda alla chiesa una presenza di valore nel mondo professionistico. Il mese scorso il dottor Abete ha convocato i vescovi della Cei per chiedere che cosa può mettere in gioco la Chiesa dopo l’omicidio Raciti e l’uccisione del tifoso Sandri. Alla Chiesa si chiede di donare esperienza, consulenza e presenza in questo mondo. Dopo i tentativi fatti di moralizzare lo sport attraverso le regole, la repressione e i controlli esterni rimane la via dell’educazione attraverso il linguaggio sportivo. La Chiesa come competente in campo educativo ha molto da dire e da fare in questo ambiente così grande e fantasioso. Quali peculiarità può mettere in campo il Csi? Il Csi nasce dalla Chiesa quando nel 1906 si definì la presenza dei cattolici nel mondo sportivo. Poi nel 1994 Gedda prese in mano la situazione in grande stile. Il Csi va avanti ancora oggi sui principi iniziali. Cosa può insegnare? Tanto perché è molto capillare e coinvolge le varie espressioni della società dai bambini agli adulti. Rispetto agli altri enti di promozione sportiva, il Csi è specifico per quanto riguarda la parte ragazzi e giovani. Il Csi sconta ancora un po’ di diffidenza da parte del Coni? Nell’ultimo mese il Coni ha fatto una verifica sulla legalità degli enti di promozione sportiva. Il mondo professionistico non fa sconti. Il Csi gode di una grande stima per la sua presenza sempre più radicata sul territorio. Il prossimo anno sono in programma le elezioni per rinnovare tutti i quadri sia a livello locale che nazionale. Ci si aspetta un parziale ringiovanimento. La realtà di Brescia è molto stimata a livello nazionale per la sua consistenza e per i suoi contatti. Il Csi bresciano è molto legato alla chiesa bresciana, lavorando negli oratori a contatto con i ragazzi. Diversamente al sud dove manca un’impiantistica parrocchiale il Csi è costretto a operare nelle strutture private o comunali rendendo l’attività molto più difficile. Cosa ha imparato don Claudio dal calcio? Ho imparato tanto, anzitutto a cercare sempre l’eccellenza, un livello di qualità superiore. Per un credente l’allenamento quotidiano è quello di tendere alla santità, per uno sportivo l’allenamento quotidiano consiste nel curare ogni piccolo muscolo. Dal calcio ho imparato la vita di squadra, molto simile al fare Chiesa. Se si fa spogliatoio si vince, se fai Chiesa vinci il tuo rapporto con la comunità. C’è un parallelo stretto tra le regole nello sport e i dieci comandamenti. Tutto il mondo che ruota attorno al calcio, variopinto e in alcuni tratti particolare, sente l’esigenze di una presenza che può provocare riflessioni e risposte più ampie. Ci sono ricordi particolari che ritornano con una certa costanza? Mi ricordo le lacrime copiose di Emanuele Filippini quando nella partita di Lecce segno il gol del 3 a 1, dedicandolo all’amico scomparso Vittorio Mero. Proprio in quell’anno i giocatori fecero un patto all’interno dello spogliatoio per devolvere il premio salvezza alla famiglia di Mero. Nell’ultima gara decisiva per la salvezza (il 5 maggio 2002, ndr) contro il Bologna, Mazzone durante l’intervallo con il risultato sullo zero a zero disse: “Quei soldi li avete promessi, o vi svegliate e vincete o li tiriamo fuori di tasca nostra”. Il Brescia alla fine vinse tre a zero con le reti di Bachini, Baggio e Toni e si salvò. In questi anni si è creato qualche rapporto particolare con alcuni giocatori? È bello mantenere i contatti. Spesso mi sento con Pirlo e con la famiglia. Con Mazzone ho creato un bel rapporto anche se all’inizio non è stato facile. Il mister amava dire che nello sport chi ha fede ha una marcia in più. La relazione educativa che si crea con i giocatori continua anche nel tempo, questo mi fa capire che la mia presenza discreta deve essere legata alle singole persone. Se poi in seconda battuta quelle singole persone vivono un rapporto di fede intenso e lo testimoniano nei rapporti con la squadra, con i mass media e con i tifosi di rimando riusciamo a comunicare la fede a un mondo lontano. I calciatori sono testimoni privilegiati che, avendo un credito di ascolto, possono comunicare in maniera implicita i valori cristiani. La fotografia di Kakà con la maglietta “Appartengo a Gesù” è una catechesi che può scuotere il mondo intero. Ci sono persone che all’inizio erano diffidenti e poi si sono avvicinate alla sua figura? Uno di questi era Mazzone. In ritiro mi disse: “Don non ti voglio”. Solo l’intervento di Corioni lo convinse ad accettare la mia presenza. Da allora ci fu una bella amicizia dentro e fuori dal campo. Mi ricordo ancora come se fosse oggi che il pomeriggio successivo alla corsa sotto la curva dell’Atalanta ci ritrovammo a chiacchierare in panchina. Mazzone mi raccontava i principi e i valori di uno sportivo e l’importanza di essere testimoni credibili con i ragazzi, la tesi era: “Don, ho fatto tanto per dire ai ragazzi di essere corretti e proprio io ho dato il cattivo esempio: è imperdonabile”. Questo passaggio fondamentale riconosce l’esemplarità come imprescindibile nell’ambiente sportivo. Un sacerdote che si occupa di sport avrà anche delle passioni particolari… Io appartengo al mondo dei panchinari. Sono cresciuti con il Jolly basket di Orzinuovi con soli quattro punti in carriera. Chi sta in panchina nello sport impara molto di più. Prandelli alla Juve ha fatto molta panchina e grazie a quel tempo di attesa e approfondimento ha maturato una forte competenza perché osservando ha imparato, imparando ha comunicato agli altri. Dal basket ho imparato a stare in panchina. Anche Dio con gli uomini sta in panchina, pronto a scendere in campo con noi. Dio aspetta di essere convocato per la gara della vita. Nel tempo libero mi diverto con il footing e quando posso con lo sci, seguo il calcio e guardo tutte le gare nazionali del Csi. Ho scoperto la ginnastica artistica e ritmica: chi la pratica ha un autocontrollo smisurato. Rispetto ai calciatori i ginnasti sono veri atleti con una cultura del corpo e delle regole del corpo.
Articolo pubblicato su "La Voce del Popolo", settimanale diocesano di Brescia

Allenatori sulla graticola

Ormai è risaputo che nel mondo del calcio i contratti sono fatti per non essere rispettati. A questa regola non possono certo sfuggire gli allenatori, in particolare quelli dei grandi club chiamati a vincere e a soddisfare le esigenze dei presidenti e dei tifosi. Ecco perché Carlo Ancelotti, Josè Mourinho, Claudio Ranieri e Luciano Spalletti condividono il medesimo destino, quello di non poter dormire sugli allori. Ancelotti, dopo aver fallito nella stagione passata l’obiettivo Champions e una volta consumato il bonus Intercontinentale, non può più fallire. Quest’anno il Milan aveva come obiettivo principe quello di vincere scudetto e Coppa Uefa. Infortuni a parte, la dirigenza non è certo soddisfatta del lassismo che domina a Milanello, dove in molti frangenti il tecnico sembra non avere proprio il polso della situazione. La campagna acquisti è andata nella direzione opposta a quella avanzata dal tecnico: Ronaldinho e Sheva non erano in cima ai suoi pensieri. La stessa tifoseria è satura e il cambio di allenatore potrebbe rinnovare la fiducia nell’ambiente, magari pescando fra i giocatori che hanno fatto grande il Milan (Van Basten o Donadoni, più difficili la scelta di Rijkaard, vista la presenza di Ronaldinho, o l’ipotesi interna con Tassotti). E Ancelotti? E’ pur vero che vuole raggiungere l’obiettivo-record di panchine di Nereo Rocco, ma è altresì vero che potrebbe fare le valigie per accasarsi a Roma o per finire alla corte di una nazionale (magari africana). A Roma Spalletti è stufo di essere l’eterno secondo in campionato e di vedere gli altri alzare i trofei, vuole quindi capire quali sono le risorse economiche di un club che nell’ultimo periodo non ha saputo investire a sufficienza. Le probabili partenze di Mexes e Aquilani potrebbero accelerare i saluti del tecnico ex Udinese. Massimo Moratti è un estimatore dichiarato di Spalletti e del suo gioco, ma certo ha in casa uno come Mourinho. Il tecnico portoghese non ha alternative alla vittoria in Champions, vero traguardo dell’Inter. Ad oggi Moratti non è troppo contento del rendimento della squadra in Europa, ma l’Inter ha pur sempre superato il turno ed è prima in campionato. Certo se non dovessero arrivare le vittorie… Mourinho potrebbe lasciare clamorosamente, anche perché la società di via Durini non sopporta le infinite polemiche scatenate dall’allenatore lusitano. Non sopporta, inoltre, alcune scelte, in primis il trattamento riservato a Balotelli, considerato un gioiello da salvaguardare. Per non parlare di Quaresma e Mancini, due acquisti che hanno deluso. Per cercare un’operazione simpatia l’Inter potrebbe virare anche su Cesare Prandelli, allettato dall’idea di avvicinarsi a Brescia e soprattutto dalla possibilità di misurarsi ad armi pari con le grandi squadre d’Europa. A Firenze per proseguire il progetto Corvino potrebbero finire Marino dell’Udinese (in Friuli può subentrare Giampaolo del Siena) o Gasperini, che sta ottenendo dei grandi risultati a Genova. Entrambi hanno la capacità di saper lanciare i giovani. Non può certo stare tranquillo Ranieri, al quale la dirigenza ha chiesto di migliorare la posizione della passata stagione e soprattutto di fare un lungo cammino in Champions. La sintonia tra tecnico e società non è totale come del resto è stato dimostrato. Anche in questo caso il nome di Prandelli sarebbe gradito alla piazza. In passato si è parlato anche di Donadoni. Infine alla finestra c’è ancora Zaccheroni, che potrebbe rientrare in realtà di media classifica, vedi Genoa o Samp. Da non sottovalutare nemmeno l’onda anomala di Napoli: se arriva la qualificazione in Champions, De Laurentiis molla Reja e si butta su un allenatore al vertice. Magari Spalletti.
Articolo pubblicato su www.ilsussidiario.net

Di Moggi e di altro

Che confusione. Il processo di Roma che ha visto l’assoluzione di quattro imputati e la condanna lieve, rispetto alle richieste, nella sostanza e nella pena dei due Moggi (padre e figlio) ha riaperto le polemiche sugli scudetti tolti alla Juve e consegnati all’Inter. Occorre fare, però, chiarezza. Il processo di Roma non è per nulla collegato alla decisione di assegnare lo scudetto all’Inter, ma per certi versi alimenta il sospetta che nell’ormai famigerata estate di Calciopoli qualcuno abbia un po’ esagerato. Stando al primo grado di giudizio la Gea non è un’associazione a delinquere. Questo è il primo dato di fatto. Per il resto è opportuno aspettare il processo di Napoli che si è aperto il 20 gennaio nel quale i pubblici ministeri hanno chiesto il rinvio a giudizio per 37 imputati, fra questi figurano Luciano Moggi e Antonio Giraudo. Solo allora la Juve potrebbe chiedere, in caso di assoluzione o di ridimensionamento del castello accusatorio, di rivedere le carte. Premesso che molto probabilmente – visti i tempi biblici della giustizia – sarà una questione di anni, la Juve potrebbe teoricamente avanzare la revisione del processo sportivo di fronte alla Corte di giustizia federale. Si tratta di un’eccezione che fa riferimento – come ricordato da Tuttosport – all’articolo 39, comma 2, del Codice di giustizia. Tornando al processo capitolino, bisogna giustamente ammettere che le accuse sono state molto ridimensionate. Ecco perché il popolo bianconero, capitanato da Coboldi Gigli («Se in futuro constateremo che ci saranno altre assoluzioni o sentenze miti, allora dovremo avere la coscienza che gli scudetti della Juve sono 29 e non due di meno»), ha rialzato la testa dalla polvere. Allo stadio domenica campeggiavano due grandi tricolori: il 28 e il 29. Lo stesso Del Piero ha candidamente ammesso che la Juventus gli scudetti li ha vinti sul campo, poco importa se le statistiche non lo ricordano. Del resto anche Ibrahimovic e Cannavaro in tempi non sospetti non hanno avuto dubbi sugli scudetti conquistati a Torino. Il processo di Roma apre, però, un altro fronte quello della “violenza privata”, delle pressioni esercitate sui giocatori (in questo caso Amoruso e Blasi) per accettare determinati trasferimenti. E se è questa la condanna, caro presidente Moratti, non conviene gongolare. La sentenza ha messo in luce, infatti, un comportamento che è diventato ormai costume in tutte le società di calcio. Badate bene, però, che questa non è una difesa dei calciatori, che si sono abituati all’idea di non rispettare i contratti e a tenere sulla corda il club di appartenenza. Il rapporto tra le parti in questione (società e calciatore) è diventato gioco-forza conflittuale. Forse sarebbe necessario riflettere su questo piuttosto che immaginare scenari futuri per il momento irrealizzabili.
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Calcio: il Titanic pronto ad affondare

Un aspetto pare chiaro e comprensibile ai più: nel calcio le vittorie non sanano i bilanci. Lo sa bene l’Internazionale che, nonostante i tre scudetti consecutivi sistemati in bacheca, ha chiuso il bilancio al 30 giugno 2008 con una perdita netta di 148,27 milioni di euro. Questi sono i numeri riproposti in un pezzo ben articolato del Il Sole 24 Ore da Gianni Dragoni. Certo nel rileggere i dati c’è una cifra importante da annotare: la perdita 2008 è inferiore a quella record (per il momento) del 2007, quando l’asticella rossa era arrivata a 206,8 milioni di euro. Non è difficile immaginare che con questi soldi (spesi male) sarebbe per lo meno auspicabile competere anche in Europa al cospetto dei grandi club. Lo sforzo economico giustifica gli scudetti? Evidentemente no. Lo sa bene anche Massimo Moratti che ha preso Mourinho quale garanzia per sfondare in Europa. L’Internazionale senza i successi in campo continentale è una società in perenne perdita. Lasciamo da parte la considerazione che con quei soldi l’Udinese o il Genoa, due squadre che ben si comportano in campionato, camperebbero di rendita per dieci anni. La questione chiara è che la galassia Inter non avrebbe modo di esistere se non ci fosse il Paperone di turno. Per garantire “la continuità aziendale” la holding di Moratti ha versato 68,5 milioni nelle casse dell’Inter e, inoltre, l’assemblea del 30 ottobre ha approvato un’ulteriore ricapitalizzazione da 86,6 milioni da versare entro la fine di quest’anno. I tifosi nerazzurri possono, quindi, dormire notti tranquille fino a quando Massimo Moratti resterà alla guida della società. Ma siamo tutti chiamati a chiederci se e quanto Massimo Moratti sarà disposto a perdere nel prosieguo. La mancanza di risultati in campo europeo potrebbe spingerlo a ridimensionare il suo investimento “a fondo perduto”. Per non parlare della grana plusvalenze da calciomercato dove è in atto una controversia con il fisco italiano sul pagamento dell’Irap. Si può discutere su un’ipotesi di cattiva gestione, ma non può bastare. Quel che più preoccupa è il fatto che una squadra di calcio con la massima esposizione mediatica, con i diritti televisivi pagati a peso d’oro, con biglietti e abbonamenti e soprattutto con uno sponsor solido come la Pirelli, non riesca a restare sul mercato, cioè non riesca a registrare indici positivi. Forse, visto che la situazione dell’Inter è comune ad altre realtà, il mondo del pallone dovrebbe interrogarsi su quali strade percorrere. Nella scorsa stagione l’Inter, ad esempio, ha pagato 190,66 milioni, il 97,6% della produzione, per la spesa del personale (stipendi dei calciatori, allenatori e dipendenti). Allora anche la tanto sospirata pay tv, che ci costringe a vedere a singhiozzi il campionato, non è in grado di far funzionare il sistema. A meno che, questa sembra essere la proposta avanzata più volte dalla Lega Calcio, si estendano le gare ad altre fasce orarie. Ma per il momento il placet dell’Associazione Calciatori è lontano. Serve una pausa di riflessione prima che il Titanic affondi o che i mecenati alzino bandiera bianca.
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Giorgio Lamberti e Tanya Vannini: il mondo nella vasca

Giorgio Lamberti e Tanya Vannini si raccontano. Ripercorrono il loro comune passato natatorio, analizzano il loro percorso di vita comune, progettano il futuro dei loro tre figli. Si sono conosciuti nel 1985 in Nazionale, ma hanno cominciato a frequentarsi solo nel 1989. Uniti in matrimonio nel 1998, crescono tre figli. Lui ha smesso per i continui problemi fisici alla spalla e alla schiena, lei per i contrasti con la sua società. Com’è iniziata la vostra avventura natatoria? Tanya: Volevo imparare a nuotare e i miei genitori non potevano insegnarmi. Per una maggiore sicurezza ho iniziato i corsi di nuoto. Solo allora hanno capito che avevo una certa predisposizione e successivamente mi hanno portato alla Rari Nantes Firenze. Il 23 marzo del 1999 cade il record del mondo di Giorgio Lamberti, il 24 dello stesso anno nasce il primogenito Matteo. Giorgio: Pensa il destino, si tratta di una coincidenza significativa: si è chiusa una parentesi di vita e se n’è aperta un’altra. Qualche rimpianto? Tanya: Non aver fatto le Olimpiadi. Ho smesso relativamente presto per problemi e contrasti con la società. Sono state comunque tutte esperienze positive. La fine relativamente precoce accomuna le vostre sorti… Giorgio: Lei ha smesso per motivi diversi..si sa anche nello sport ci sono giganti del pensiero. Io ho smesso per motivi fisici. Quella volta che Giorgio Lamberti ha tolto gli occhialini e ha detto basta... Giorgio: Quando sei abituato a competere a livello mondiale ma non sei più in una condizione fisica ottimale, di fatto ti accorgi che qualcosa ti impedisce di raggiungere le prestazioni. Viene a mancare quello stimolo per rimanere concentrato, per continuare ad allenarti e per dedicarti quotidianamente al sacrificio e al lavoro. Il nuoto è uno sport di grande sacrificio e difficoltà. Se sei a posto con te stesso, ti alleni con più convinzione. È assurdo andare dal fisioterapista per massaggi e terapie più volte la settimana per poter nuotare. Se i dolori, e la fatica diventano insopportabili, si prende il coraggio a quattro mani e si molla. In quel periodo (pasqua 1993, ndr), la società viveva un periodo di cambiamenti a livello dirigenziale e a livello tecnico. Mi allenavo agli ordini di Pietro Santi nella vecchia piscina di Mompiano. Stavo facendo delle ripetute, ma non ero più convinto e mi sono fermato in mezzo alla vasca: ho tolto gli occhialini, ho guardato Santi ed è bastato un cenno d’intesa per uscire dalla vasca. Era finita. La Federazione ha tentato di farmi rientrare, coinvolgendomi nel settembre del 1993 nell’organizzazione del Mondiale, ad un anno di distanza dai Campionati di Roma. Mi chiamarono e mi proposero due opzioni: entrare nell’ambito dirigenziale o recuperare dal punto di vista agonistico. La mia aspirazione era di rimanere a contatto con l’ambiente sportivo. Tentarono di rimettermi in forma attraverso delle terapie al centro di Medicina dell’Aquacetosa: a 24 anni sapevo che avrei potuto dare ancora molto, ma gli acciacchi alla spalle e alla schiena me lo impedivano. Per tre mesi mi allenai in gran segreto nella piscina ergometrica. Oltre al fatto di non percepire i benefici, mi ero reso conto che di testa avevo chiuso. Quando un campione dello sport perde le motivazioni, non c’è più niente da fare. Subentrano altre prospettive. Volevo però che rimanesse un buon ricordo, ho chiuso questa parentesi sportiva e mi sono dedicato ad altro. Senza rimpianti. Chiusa questa esperienza, avete continuato la vostra vita a contatto con il mondo natatorio? Tanya: Sì, a Borgo San Lorenzo facevamo insieme degli stage estivi di nuoto per i bambini dai 6 ai 14 anni. Per quattro anni ho fatto l’istruttrice per i bambini, poi per due anni ho allenato la Leonessa Brescia. Dalla Toscana a Brescia, un passaggio traumatico… Tanya: Abbastanza, ma mi sono adattata. Mi ha pesato la mancanza della famiglia… La vostra storia aveva creato problemi a bordo vasca o erano altri tempi rispetto a quelli del 2000 (vedi la vicenda Marin e Manaudou)? Giorgio: Inizialmente no, poi ci hanno dato qualche fastidio perché pensavano che potessimo perdere la concentrazione. Se due atleti sono seri e hanno i loro obiettivi non si fanno condizionare. Nel nuoto ti alleni 4/5 ore al giorno solo se trovi la molla interiore per tentare di raggiungere la meta prefissata. C’era una sorta di rivalità fra voi due? Giorgio: No, assolutamente. Le invidie ci sono state all’interno della squadra azzurra. Chi era abituato a vincere guardava con ostilità la mia esplosione. Quali vittorie sono indelebili nella vostra memoria? Tanya: Io, paradossalmente, mi ricordo con grande piacere un sesto posto, per come era maturato. Arrivai sesta e andai sotto i 2 minuti nei 200 stile, un risultato che avevo inseguito molto. E pensare che quella gara la feci per caso. Ero al Festival Arena di Bonn nel febbraio 1987, una sorta di Campionato del Mondo in vasca corta (25 metri). Andai ad assistere alla finale dei 200 stile perché ero quasi sicura di non essermi qualificata, invece...ero in finale. In fretta e furia mi fiondai sui blocchi e arrivai sesta. Giorgio: A Bonn nel 1989 firmai il record del mondo sui 200 stile libero. La vittoria più difficile e faticosa fu, però, quella ai Mondiali di 2 anni dopo a Perth: fu una vittoria di carattere e di testa, dovevo reggere le pressioni e i problemi fisici. Sono due soddisfazioni diverse Ai Mondiali di Bonn si racconta di un foglietto... Giorgio: Ero in una condizione strepitosa, sicuro di vincere. Mi trovavo in camera con Antonio Consiglio che mi fece scrivere su un foglio i passaggi dei 50, 100, 150 e 200. Li azzeccai e feci il primato del mondo sui 200 stile libero (1’46’’69). Cosa si prova ad essere il primo al mondo? Giorgio: Quando lo realizzi non hai la percezione di quello che stai facendo. Arrivi a quel livello gradualmente. Se in condizione fisica, vincere per un atleta diventa naturale: vivi con soddisfazione il record, ma con una certa normalità perché è il frutto di anni di allenamento e di lenti miglioramenti. Solo con il passare degli anni prende forma il valore di quello che hai fatto. Quando vinci sono tutti con te, quando perdi… Giorgio: Beh ricordo l’anno delle Olimpiadi del 1988, la stampa specializzata colpì tutti gli atleti: in particolare mi diedero dello psicolabile a nove colonne sul primo quotidiano italiano. Fu un momento spiacevole non solo per me, ma anche per la Federazione e per il tecnico Alberto Castagnetti che tutt’ora dopo 20 anni è ancora C.t. della nazionale. L’anno dopo, tanto per smentire i miei detrattori, feci il record del mondo. Da quale pozzo bisogna attingere in questi casi? Giorgio: Conta la consapevolezza nei propri mezzi. Ognuno sa cosa può offrire. Nel nuoto non ci sono appelli, è il cronometro che parla. L’atleta vive in simbiosi con il proprio tecnico e con lui ha la convinzione di poter raggiungere determinanti risultati. Il nuoto vive le criticità degli altri sport? Giorgio: Il nuoto in 20 anni è cresciuto in modo esponenziale. Cresce per molteplici motivi: sono aumentati gli impianti e la Federazione con tutti i suoi difetti ha scelto l’indirizzo della qualità e della formazione. In Italia abbiamo istruttori preparati. I risultati si vedono. Il nuoto è nei primi tre sport per diffusione: oltre 5 milioni di abitanti si rivolgono alle piscine. Questa tendenza crescerà ancora: si sta generando la cultura dell’acqua del benessere psicofisico. Brescia e la Provincia per numero di impianti e per i risultati sono un esempio su questo versante. Il nuoto è uno sport di fatica. Dai 15 ai 17 anni si forma la struttura di un’atleta. Si parla di allenamenti (mattina e sera) quotidiani. In alcuni sport ben più pubblicizzati, due sedute a settimana sono sufficienti. Quali difficoltà avete incontrato da giovani, soprattutto a scuola? Tanya: A scuola non ti aiutavano. In classe ti facevano pesare l’impegno sportivo. A 14 anni ho iniziato un ritmo massacrante: allenamento dalle 6 alle 7.30, scuola e ancora allenamento dalle 14.30 alle 17. Se consiglio questo approccio? Solo se c’è la passione. Giorgio: A scuola era un calvario. Siamo in un paese arretrato. Uno sportivo dovrebbe seguire un percorso parallelo e sereno... siamo a livelli da preistoria sportiva. Ci riempiamo la bocca di attenzione all’attività motoria, ma poi... L’attenzione degli insegnanti dipende molto dal comportamento dei singoli più che da una logica di sistema. Nel 1988 dovevo affrontare le Olimpiadi e la maturità, il preside del “Tartaglia” mi permise fra mille ostilità di frequentare da gennaio a giugno il corso serale. Non essendo un lavoratore ero considerato clandestino. Il dramma era non addormentarsi in classe dopo una giornata in acqua. A scuola, comunque, mi sono sempre difeso bene. Cosa vi ha lasciato l’esperienza sportiva? Tanya: Mi ha permesso di viaggiare e di divertirmi in gruppo. Mi ha dato l’opportunità di vedere il mondo. Giorgio: Ho fatto molte esperienze e ho conosciuto altre culture, cosa che un tempo era impossibile. Il nuoto, inoltre, mi ha aiutato a saper reggere le tensioni e i ritmi nei momenti di criticità. Non è da tutti vivere la tensione di un campionato del mondo, essere all’addetto ai concorrenti e aspettare nella stanza della chiamata. Senza dubbio sono aspetti che fanno crescere. Devi vivere questi momenti con grande serenità: devi competere ma devi avere anche la gioia di vivere una cosa straordinaria. .Le emozioni, l’adrenalina che sale. Poi questi aspetti ritornano nella vita di ogni giorno. Al di là della competizione, in ogni sfida che si affronta c’è questa ricerca di risoluzione di un problema. Lo sport aiuta al confronto. Essere buoni genitori…Com’è stato il rapporto con i vostri genitori, quale merito hanno avuto? Tanya: I miei genitori mi hanno accompagnato a destra e a sinistra. Ogni mattina alle 5,30 mio papà mi portava all’allenamento. Era il mio primo tifoso. Eravamo in tre da accudire. Giorgio: . Per il mio carattere non ho mai voluto i miei genitori al seguito: infatti ho molte cassette registrate da mia mamma che mi seguiva da casa. Lo sport è un impegno. Non tutti sono disposti a sacrificare il proprio tempo. Anche questo deve essere fatto con convinzione. Il compito educativo è sulle spalle di Tanya. Pubblicato su "La Voce del Popolo", settimanale diocesano di Brescia

L’infinito disegno di Dio

Padre Aldo Trento, missionario in Paraguay: la luce nella notte "Il mio unico progetto è fare quello che Dio mi mostra ogni giorno". In Paraguay la parrocchia di San Rafael guidata da padre Aldo Trento riprende la coscienza medievale e lo spirito delle Riduzioni dei Gesuiti. Si accompagna l’uomo dalla nascita al cimitero, mostrando come il cristianesimo crea una civiltà dell’amore. Padre Aldo (classe 1947, nativo della provincia di Belluno) è in Paraguay dal 1989 dopo una serie di esperienze anche traumatiche (il periodo della contestazione, una crisi affettiva e la depressione). La parrocchia di San Rafael ha circa 10mila abitanti e si trova nella capitale Asunción. Nel 2004 è nato il Centro di eccellenza dedicato a San Riccardo Pampuri che ha fin qui dato assistenza a14mila malati ("Piccole ostie bianche", come le chiama padre Aldo) della strada attraverso dei poliambulatori. L’eccellenza è certificata anche dal Parlamento che ha attribuito al Centro cospicue risorse della finanziaria. "Adesso vedremo con il nuovo governo dell’ex vescovo Fernando Lugo, duramente osteggiato in campagna elettorale dalla Chiesa. Speriamo che non cambi la situazione. Posso solo dire che il vicepresidente del Paraguay fa il medico volontario nella clinica e al mattino prega le lodi nella mia parrocchia". Un asilo, una scuola elementare, un’azienda agricola che prima era destinata al recupero dei carcerati e oggi è una succursale per i malati di aids non terminali. Due casette per i bambini orfani o malati di aids. La Casa Gioacchino e Anna per anziani, il Banco dei donatori del sangue, il Banco alimentare. Sono queste le altre attività sviluppate da padre Aldo che a partire dall’incontro con don Giussani ha ritrovato se stesso e ha accompagnato gli ammalati in particolare quelli terminali verso l’incontro con Cristo. Padre Aldo, è difficile sintetizzare in poche righe la sua missione Mi occupo anzitutto di malati terminali e depressi. Quello che è strano è che avevo terrore di finire in un manicomio. Ho alle spalle anni e anni di antidepressivi. La notte che porto con me è dolorosa, ma oggi la vivo con la gioia perché Dio per realizzare le sue opere ti vuole sulla sua croce con lui. Può fare anche diversamente, ma con me ha scelto questo metodo. Stare di fronte agli ammalati significa realmente immedesimarmi con loro fino al punto che quella sofferenza diventa mia, diventa preghiera e supplica. Dentro il dolore che porto dentro rifletto la gioia che nasce dalla croce. Ringrazio Dio di essere sulla croce con lui. In qualunque luogo vado mi affascina annunciare la bellezza di Cristo. Dal 1989 è in Paraguay, ma ha sperimentato solo più tardi attraverso il Centro San Riccardo Pampuri un modo diverso di essere Chiesa accanto agli ultimi e ai sofferenti Dio ha fatto sorgere tutto quell’insieme di opere della carità che oggi sono nella mia parrocchia. Con l’esaurimento ho abbracciato la croce. Ho rivissuto lo sguardo di tenerezza di don Giussani perché nella mia parrocchia potesse accadere la stessa compagnia per i malati di aids, di mente, i terminali, gli anziani e i bambini delle favelas. Dio sta compiendo quello che era il suo disegno su di me. Dio mi ha condotto in Paraguay: l’uomo di oggi ha bisogno di uomini che facciano, come Giussani, compagnia all’uomo in maniera gratuita. Io do la mia vita perché quella gente si senta amata e voluta bene come io mi sento ancora oggi abbracciato da Giussani. Nei volti dei malati si può rivedere il volto di Cristo, eppure facciamo fatica ad accettare questa condizione Tu pensa a me. Non avevo neanche per la testa di fare queste cose. Non avevo più voglia di vivere. I morti mi hanno sempre fatto paura così come i malati terminali. Qui l’uso della morfina diventa aiuto alla compagnia, non sostitutivo della compagnia. Portiamo il malato a portare la croce nella misura in cui Dio gli dà la forza di sopportarlo. Tutti i giorni vedo la morte in faccia. Il nostro fine è che i malati terminali possano incontrare Cristo. La morte è come il momento del matrimonio nel quale si apre la porta della chiesa con il fidanzato che aspetta sull’altare la fidanzata. Una notte muore un malato di aids e un’infermiera mi ricorda che quando le donne andavano al sepolcro avevano con se gli aromi e i profumi. Da allora anche da noi si fa così. La bellezza di Cristo è capace di liberare il cuore dell’uomo? Un ragazzo di 22 anni, piegato dall’aids, mi ha detto: «Padre, io non ho mai avuto nessuno come compagno nella vita, l’unico è stato l’aids. Oggi finalmente capisco cosa cercavo». Gli ammalati chiedono continuamente i sacramenti. Una mamma di 32 anni si è ritrovata con due bambine di 7 e 8 anni, affette da malattie congenite, morte in ospedale: è rimasta da sola con un bambino e ha scelto di adottarne altri 12 malati di aids. C’è anche chi, fra gli ammalati, ha scritto un canto per ricordare che la morte libera dalle catene del corpo e fa incontrare Cristo. Crispino, 34 figli sparsi ovunque, prima di morire ha organizzato una cena per festeggiare l’ultimo compleanno con tutti i malati. I racconti sarebbero molti. Nell’opinione pubblica trova spazio sempre più spesso la parola eutanasia. Cosa ne pensa? Ah, se capissero queste piccole ostie bianche. Cosa sarebbe la mia clinica, la mia stessa vita senza quel figlio adottivo idrocefalico che ho preso dalla strada e ho adottato e al quale ho dato il mio stesso nome (Trento Aldo Antonio)? Non parlerà mai, non capirà mai, ma adesso mi sorride. Ma voi capite cosa vuol dire questo? Senza queste ostie bianche com’è che Dio potrebbe sopportare uomini che si dimenticano di Lui e non hanno più il coraggio di guardarLo in faccia? Ma tutto questo non fa parte, forse, di quel disegno del calvario, di morte, resurrezione, gioia e pace? Come vorrei che il mondo capisse il valore immenso che hanno quei bambini. È la ricchezza più grande che abbiamo a disposizione. Facciamo un passo indietro. Ripercorriamo le tappe della sua vocazione All’età di 7 anni sento la prima chiamata, ma purtroppo ero troppo piccolo. A 11 anni durante una confessione il sacerdote mi chiese se mi sarebbe piaciuto diventare prete, dissi di sì un po’ anche per il timore della sua reazione. Poi mi accorsi che quel sì aveva cambiato la mia vita: desideravo essere totalmente di Cristo. Quali sono state le difficoltà principali? Durante gli anni della contestazione sono entrato in crisi. Ero irrequieto: la voglia di infinito e di totalità; il cristianesimo che avevo accolto non era in sintonia con il ‘68. A Padova da giovane prete incontro Potere Operaio e lì perdo la testa. Divento simpatizzante con tutto quello che ne seguì: i superiori mi mandarono - dopo il divieto da parte del vescovo di predicare in parrocchia - a Salerno a seguire i carcerati. La prima svolta avvenne durante una manifestazione Nel maggio del 1975 avevo aderito a uno sciopero contro l’imperialismo americano in Vietnam. Quattro ragazzi (di cui uno mi ha scritto questa settimana) del primo anno del liceo dove insegnavo mi videro con il giornale di «Lotta continua» e mi dissero: «Padre non è così che si cambia il mondo, lei dovrebbe insegnarcelo. Il mondo si cambia, il suo cuore cambia se incontra Cristo». Rimasi sconvolto. Incominciai a seguire l’esperienza di Cl. Da lì è iniziata la mia avventura fino al 1989 quando una crisi affettiva mi ha messo ko: da un lato capivo che questa persona era importante per la mia vita, dall’altra ero prete e la mia vocazione era fuori discussione. L’incontro e il rapporto con don Giussani Consegnai la mia situazione a don Giussani che mi disse: «Finalmente è accaduto il miracolo, adesso diventerai un uomo». Diventare un uomo ha voluto dire fare i conti con la mia umanità che non pensavo così drammatica e così dura. Il 7 settembre 1989 don Giussani mi ha accompagnato all’aeroporto per il Paraguay. Mi sono buttato nella San Carlo per un disegno del quale Giussani era il tessitore e Dio la mano. Per 11 anni ho continuato a vivere un dolore terribile, una depressione per cui l’unica cosa che volevo era morire. Non capivo ancora perché Dio mi volesse così.
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